Memorie della mia vita» di Giacomo Leopardi (1941)

Recensione a Giacomo Leopardi, Memorie della mia vita, a cura di Beniamino Dal Fabbro (Milano, Bompiani, 1942), «Primato», a. III, n. 22, Roma, 15 novembre 1942, p. 413.

«MEMORIE DELLA MIA VITA» DI GIACOMO LEOPARDI

Per Dal Fabbro come per un gran numero di veri letterati esitanti sul margine della poesia creduta romantica equivalenza di sentimenti autobiografici, Leopardi è piú che un classico. A parte l’avventura della «Ronda» col suo Testamento letterario di G. Leopardi, il Leopardi ha mantenuto una presa giovanile non letteraria che va dalla maestrina che “sarebbe stata capace di amarlo” al letterato piú guardingo ed impegnato con una vita totalmente poetica della poesia.

Quali di te stesso il cuore e il canto consegnavi a un sepolcro,

ora giungono agli anni ultimi e opachi della mia gioventú.

E lei consoli dello scarso amore d’esistere e del modo

arido e nudato di speranza o casta e cara voce!

dice Dal Fabbro nella sua «Tomba di Leopardi» nella recente raccolta Villapluvia e altre poesie (Parenti, 1942) e noi gli siamo grati di tale dichiarazione che lo avvicina al vario sodalizio leopardiano in cui sotto le adesioni piú controllate vibra la nota di una simpatia umana, di una sospirosa consonanza sentimentale di cui sarebbe stolto il vergognarsi.

E dunque ci è anche inizialmente piaciuto questo nuovo volumetto della Universale di Bompiani: Memorie della mia vita, 1942, col suo Morandi in copertina e con una sensibile introduzione di Dal Fabbro. Questi riprendendo il disegno di collegare brani dello Zibaldone ha aggiunto le bellissime pagine delle Carte napoletane, la lettera agli amici di Toscana, la conclusione del Tristano e ha riunito tutto sotto il titolo di Memorie della mia vita secondo il suggerimento esplicito dello stesso Leopardi: «Ci venne il titolo da una voce degli indici compilati dallo stesso Leopardi per il suo Zibaldone» (precisamente l’ultima delle “Polizzine a parte”).

Nell’introduzione alcune righe biografiche ci sembrano assai riuscite ed efficaci a schiarire quell’aria di romanzo sentimentale che circonda i genitori del poeta: «La vita di Leopardi viene naturalmente a dividersi tra le sue partenze da Recanati, sempre speranzose e talvolta quasi allegre, e gli sconsolati ritorni a Recanati, col peso di nuove sconfitte, di nuove malattie e con la paura di non poterne evadere, di restare imprigionato dal gelido affetto della madre avara e bigotta e dalle tortuose maniere del padre che non resisteva dal ritenere il figlio uno sconsigliato se “di professione proprietario” preferiva viaggiare per il mondo in cerca di improbabili guadagni». E tutta la delicata presentazione dei motivi piú intimi di quella vita ci persuaderebbe se non ci premesse chiarire la discutibilità dell’interpretazione tradizionale di un Leopardi solamente idillico, di una sua vita cosí diversa da quella dei romantici piú autorizzati come un Alfieri o un Foscolo pieni di «contrasti violenti e moti tumultuosi», di fronte ai quali la vita del Leopardi «si dimostra nuda, semplice e nello stesso tempo misteriosa come la sua poesia. Sin dal suo principio, la condizione umana di Leopardi s’appalesa, nei suoi termini, quale fu poi per sempre: immutabile, eccetto che per aggravarsi di mali o di sventure singole: irresoluta, se non dalla morte». Raccolta immagine suggestiva che ad uno studio storico di tutto Leopardi si rivela però tendenziosa come quella di un Leopardi esclusivamente poeta dell’idillio: storicamente quel gesto raggelato è continuamente mosso, spesso deciso e affermativo. E se è giusto rilevare un suo «segreto colloquio con se stesso», una sua segreta misura, non van dimenticati l’estremo bisogno di uscirne, gli impeti passionali rivolti verso altri esseri umani, l’ardore romantico che vive sotto quell’estremo candore. La sua vita allora si prolunga anche verso il sodalizio con il Ranieri e con l’impeto evangelico della Ginestra e si complica non con il controllatissimo primo amore, ma con le tracce profonde della passione fiorentina. Ma poiché lo Zibaldone cessa con il ’32, mancano altri documenti biografici e Dal Fabbro si vieta di attingere all’Epistolario, il raccorciamento al finale ideale del Tristano si presenta inevitabile, anche se, ripetiamo, tendenzioso.

E quindi piú che uno spaccato sicuro dell’anima leopardiana, queste Memorie rappresentano soprattutto una riprova della validità della memoria, musa delle muse moderne, nel primo grande scrittore italiano (nell’Alfieri la tesi eroica prevale nella Vita sulla cura gustata di certe pagine di indagine quasi proustiana) che abbia voluto piú che una sublime immagine di se stesso una ricerca antiretorica del proprio passato, e abbia cercato un commento minuto e sensibile della propria vita piú intima e segreta.